Moda e (music) celebrity: cosa nasconde il naming?

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Gianluca Billo, Managing Director

 

Cosa succede quando un grande player del fashion e lifestyle incontra un personaggio di successo? Che marchi apparentemente lontani si avvicinano e l'operazione, di puro marketing, porta al raggiungimento di uno o più obiettivi, come il rafforzamento (o la modifica) del posizionamento del brand, l'innovazione di prodotto, l'espansione del pubblico di riferimento.

Niente di nuovo fino a qui: è quello succede da tempo e che è avvenuto ad esempio, in tempi recenti, nell'incontro tra Puma e Rihanna, divenuta global ambassador del brand per affinità di valori, immagine e target; nella pressoché identica operazione portata avanti da G-star con Pharrell Williams (poi sfociata in una co-ownership da parte del cantante). Spostandoci dai musicisti ai personaggi semplicemente famosi o influencing abbiamo Gigi Hadid che firma scarpe per Tommy Hilfiger; Victoria Beckham che crea per Target e Kate Moss che disegna per Topshop. Già anni fa ci furono le Nike Jordan. E la lista può allungarsi pressoché all'infinito.

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Attenzione: non stiamo parlando di icone di stile o musicisti che creano il proprio brand di moda (come la Material Girl di Madonna o la Ivy Park di Beyoncé che esprimono riferimenti alla produzione artistica o alla vita personale delle celebrity), ma di personaggi di tendenza che i brand di moda vogliono tenere vicini a sé, tanto vicini da attribuire il loro nome a una collezione o addirittura apporre la loro firma. E proprio questo ci interessa: il nome.

In tutti questi casi nel nome della collezione, che può durare una sola stagione o vari anni se l'operazione ha successo, compare chiaramente il nome della celebrity. È il suo nome che offre un richiamo al pubblico e che vuole essere il concetto, il valore, l'elemento principale associato alla collezione, per incoraggiare appunto l'acquisto da parte di chi la ammira. La collezione Puma si chiama Fenty (cognome reale della cantante) by Rhianna, quella di Adidas si chiama Pharrell Williams, quella di Tommy Hilfiger Gigi Hadid x Tommy Hilfiger, e via discorrendo.

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Chi ha fatto qualcosa di diverso è stata invece Adidas che, nella collaborazione con Kanye West a partire dal 2015, ha evitato accuratamente di utilizzare il nome del cantante e si è concentrata sul naming: le scarpe si chiamano Yeezy e il nome di Kanye West non è citato. E qui viene il bello. Non è citato ma la stampa ne parla, i veri fan riconoscono nel nome Yeezys il riferimento all'album Yeezus, di enorme successo. E ancora: le scarpe costano tantissimo, non sono prodotte regolarmente ma rilasciate (sì, proprio come un software) solo in alcuni momenti dell'anno e vanno subito a ruba. Parte un mercato B (su Ebay ad esempio) che permette di averle solo a chi è disposto a pagare (molto) di più.

Adidas, con le Yeezy, ha creato quasi dal nulla un prodotto nuovo che di nuovo ha in realtà semplicemente l'esclusività che viene colta pensando al prodotto, esclusività legata - da un lato - alla conoscenza dell'operazione che vi sta dietro e - dall'altro - alla difficoltà oggettiva di ottenerlo. 

Il risultato? Le Yeezy sono un oggetto di culto tra gli adolescenti con genitori danarosi, e non solo.

Una operazione sofisticata, dunque, che collega sapientemente naming, comunicazione, sviluppo prodotto e distribuzione. Brava Adidas. E bravo Kanye: il marchio Yeezy è suo.